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I consumi alimentari italiani sono trainati dal fuori casa

luciano-sbraga.jpgPizzerie, economia, trend: a tal proposito intervistiamo Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi Fipe Confcommercio. 

Ufficio Studi che si occupa di effettuare indagini e ricerche e monitorare 

con studi statistici l’andamento del comparto del fuoricasa.

 

ll mercato del fuori casa Italiano, secondo gli studi FIPE, registra andamenti molto positivi almeno rispetto a quelli degli altri mercati europei. Da loro c’è crisi e da noi no? Qual è il motivo (o i motivi) di questa controtendenza?

«La crisi c’è e c’è stata anche in Italia. Nel 2009 la ristorazione ha perso circa un miliardo e mezzo di euro di consumi reali. Lo scorso anno l’incremento della domanda è stato di appena mezzo punto percentuale. Ciò che ci distingue dagli altri Paesi è che i nostri consumi alimentari, nonostante la crisi, vengono trainati dal fuori casa. Nello scorso decennio per ogni euro di incremento dei consumi alimentari novantatre provengono dal fuori casa. Altrove, invece, i consumi fuori casa arrancano mentre si assiste ad un recupero di posizioni da parte del canale domestico».  

Come commenta il dato secondo cui a partire dal 2005 il tasso di crescita dei prezzi della ristorazione, con l’eccezione del solo 2010, è stato costantemente al di sotto delle medie dell’Unione Europea e dell’Eurozona? È un elemento che ha agevolato la costanza dei consumatori a consumare nei locali?

L’Italia è un Paese a crescita lenta, molto più di quanto accade in giro per l’Europa. Ciò si riflette inevitabilmente sui consumi e da qui sulla dinamica dei prezzi. Il virtuosismo della nostra ristorazione in termini di inflazione va ricondotto dentro questo contesto di consumi poco vivaci, ma anche nella maggiore consapevolezza delle imprese a maneggiare la leva del prezzo.

 

Aumentano gli stranieri fra i titolari dei pubblici esercizi.

Questo fenomeno è esteso anche alla pizzeria? 

«Oggi abbiamo circa 38mila imprese che operano nel mercato della ristorazione guidate da imprenditori immigrati. Un numero importante che rivela molte cose. Primo: il settore svolge un ruolo forte nell’integrazione degli immigrati. Secondo: il turn over imprenditoriale continua ad essere vivace. Terzo: l’ingresso massiccio di immigrati rappresenta la spia che gli equilibri tra costi e opportunità all’interno del mercato stanno cambiando in peggio. Quando si dice che in Italia ci sono lavori che gli italiani non vogliono più fare occorre estendere la riflessione anche al “lavoro” di esercente. Le pizzerie sono dentro questa trasformazione anche se non disponiamo di dati disaggregati fino a questo livello».

 

Quali rischi paventa per la ristorazione e la cultura italiana del cibo il crescente aumento degli addetti stranieri? A lungo andare ci potrebbe essere un’ibridazione dei modelli alimentari, delle ricette, oppure i ristoratori stranieri si faranno “fagocitare” dalla qualità e dalla varietà della cucina italiana?

«Non ragionerei tanto in termini di rischi connessi alla crescita di ristorazione etnica. Non è questo il punto. La questione riguarda invece il mantenimento di un modello alimentare italiano, che poi è prevalentemente locale, nel quale lo stile dell’accoglienza è decisivo così come la conoscenza dell’intera filiera del food».

 

Secondo le stime FIPE quanti locali per la ristorazione operano in Italia? È possibile stimare il numero delle pizzerie fra tradizionali e non?   

«Se alla ristorazione diamo un significato europeo siamo intorno alle trecentomila. Se, invece, ci manteniamo dentro il perimetro della ristorazione con somministrazione, escludendo in tal modo il take away, oltre novantamila. Una stima attendibile valuta il numero delle pizzerie in circa 25mila unità. Se aggiungiamo ogni altro luogo in cui si può consumare pizza dovremmo moltiplicare almeno per due».

I ristoratori italiani lamentano fra i fattori di maggiore difficoltà che debbono affrontare l’altissimo numero di pubblici esercizi in Italia. Hanno ragione, hanno torto? Qual è la situazione, per esempio rispetto agli altri Paesi europei?

Un alto numero di esercizi, se può essere un bene per la concorrenza, potrebbe non essere altrettanto per la  migliore qualificazione di tutto il comparto.

«In Italia abbiamo 415 esercizi di ristorazione ogni 100mila abitanti. A livello di Unione Europea se ne contano 291 e 361 nell’Eurozona. Che la pressione competitiva sia enorme appare indiscutibile. A ciò occorre aggiungere il numero impressionante di esercizi extra-canale. Abbiamo fatto qualche conto, magari approssimativo, che ci porta a stimare in circa 2,7 milioni i luoghi in cui è possibile bere e mangiare fuori casa in Italia. Ci sono sagre, circoli, gastronomie, senza contare poi i 2,3 milioni di vending machine.

Quando si parla di piccole imprese, anzi di microimprese, non sempre è vero che nella competizione vince il migliore. Più verosimilmente è possibile che vinca quello che si sa “adattare” meglio».


25/06/2011

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