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Al fisco non piacciono gli spaghetti.
In Italia siamo abituati a tutto, ma in più di un’occasione il tutto viene superato dall’incredibile. Parliamo di fisco e burocrazia applicata alla ristorazione. La storia incredibile è assolutamente vera.
Quanti spaghetti vanno portati in tavola per essere a posto con la legge? Ottanta, cento grammi massimo, non uno di più. I tentacoli della burocrazia italiana si allungano fino al piatto.
Sembra incredibile, ma il Fisco può arrivare a chiedere a un ristoratore quanta pasta offre ai suoi clienti e, se sgarra, scatta la sanzione. È successo a un ristoratore di Roma. Hanno fatto il controllo, attraverso le fatture, di quanta pasta ha comprato il locale in un tempo determinato, e l’hanno confrontata con la quantità che il fisco burocratico prevede debba avere un piatto di spaghetti. Per la cronaca 80-100 grammi per piatto. Fatto questo raffronto gli zelanti super ispettori (sicuramente a dieta) hanno stabilito che quel ristorante ha “sicuramente” venduto durante lo stesso periodo 1000 piatti da 100 grammi.
Da fatture e ricevute invece risulta che ne erano state vendute 500. Quindi il fisco ha stabilito che gli altri 500 sono stati venduti in nero e ha applicato una pesante sanzione al malcapitato ristoratore.
A nulla sono valse le proteste del ristoratore che ha dichiarato: «Il mio è un ristorante tradizionale, faccio piatti abbondanti altrimenti i miei clienti me li rimandano indietro. Neanche le testimonianze di alcuni clienti sono serviti. Niente, gli ispettori a dieta sono stati irremovibili».
Com’è andata a finire? Al ristoratore è stato suggerito di pagare per non avere ulteriori problemi. Sicché se gli ispettori erano a dieta, il fisco ingrassa grazie alla complicazione burocratica e nel frattempo stritola le imprese e spesso le fa morire. Storie di ordinaria follia in questo nostro bellissimo Paese.
Dopo il Job Act arriva il Food Act.
Fra il nostro Governo che annuncia una riforma al mese e i cuochi italiani (quelli di alto bordo però) è stato fatto un patto che prevede credito agevolato e scuole per i giovani, lotta ai prodotti falsi e promozione turistica: si chiama Food Act. È un piano in dieci punti - e altrettanti obiettivi - per “valorizzare la cucina italiana”. Che vuol dire, dicono, non solo gusto, ma anche cultura e turismo, economia e agroalimentare. Bello, bellissimo. I grandi chef si sono subito spellati le mani ad applaudire e allo stesso tempo hanno pensato di mettere in piedi le loro scuole. Visti i budget e gli investimenti in promozione che il piano prevede perché non acchiappare qualcosina? Un modo come un altro per far lievitare il loro conticino in banca. C’è crisi e ce n’è bisogno. Pertanto solerti si sono offerti per mettere a punto il piano che certamente sarà tarato sulle loro grandi, innate, inarrivabili capacità e qualità. Questo patto tra le istituzioni e i grandi chef può rappresentare una delle eredità più importanti di Expo ,dice gongolante il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina. Ricordate? Nutrire il pianeta, energia per la vita. Bello, bellissimo. Peccato che il rischio è sempre quello: costruire un altro tavolo politico burocratico, dove si incontrano persone che stanno giornate a parlare e a parlarsi addosso, farsi pagare per questo, per poi decidere cosa fare e chi, per poi demandare il tutto ad altre persone che magari non capiranno cosa fare e chi. Intanto, il mercato della ristorazione, quello reale, quello che ogni santo giorno deve tirare su la saracinesca, deve lavorare e sudare sangue per guadagnarsi la pagnotta. Darsi da fare senza santi in paradiso nei budget politici per tenere in piedi la baracca. Farlo in un mercato dove ancora i segnali di crisi sono ancora evidenti e dove il 95% dei clienti si accontenta di mangiare una buona e onesta pizza e del Food Act non frega nulla.
21/10/2015
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